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Il Clan dei Catanesi, la Mafia in Piemonte – Parte 1

Da Alessandro Maldera

Gennaio 16, 2014

Il Clan dei Catanesi, la Mafia in Piemonte

Per raccontare questa storia criminale, questa pellicola noir proiettata nella realtà torinese, si è scelto di incominciare dalla fine, dall’epilogo delle gesta mafiose del clan dei catanesi, la cosca che possedeva le strade di Torino.

Era il 22 gennaio 2006, corso Regio Parco, sera.

Due killer venuti dal sud, due trasfertisti in missione di morte, aspettavano il loro obiettivo.

Lorenzo Spampinato detto “Enzo l’oliva” per via della carnagione, cadde ammazzato a due passi del suo alloggio sotto i micidiali colpi di una 357 magnum, poi fatta sparire tra le acque gelide del Po.

Stava rientrando a casa con la moglie e la figlia piccola, era in permesso premio dal carcere, dove scontava la pena per un assalto ad un deposito aureo di via Gioberti del 2002. Omicidio mafioso.

L’esecuzione fu ordinata dal boss d’origine siciliana Carmelo Finocchiaro “latteredda”, re del totonero, alleato del clan ‘ndranghetista di Domenico Belfiore e di Giuseppe Gallo “Pino il Principino.”

Finocchiaro non voleva rivali nella gestione del malaffare e Enzo l’oliva sognava di far fuori latteredda. Mossa anticipata dall’avversario.

Fine della competizione.

Già nel 1993 altri ambiziosi pretendenti avevano insidiato il potere a Finocchiaro. Orazio Orofino e Vincenzo Iodica finirono di fare i gangster il 4 ottobre di quell’anno in Piazza Fontanesi, crivellati coi canne mozze, con pistole magnum, con mitragliette.

L’Audi sulla quale viaggiavano i due venne bloccata da due vetture Fiat.

I sicari uscirono sparando determinati. Uccisero subito Iodica. Orofino, ferito, tentò di scappare. Picchiò i pugni sui portoni, invocava aiuto, si accasciò dietro ai bidoni dell’immondizia a tentar un ultimo patetico nascondiglio.

“Bastardo così impari.” Gli urlarono. E poi una valanga di piombo in testa a fargliela esplodere.

Il Clan dei Catanesi, la Mafia in Piemonte

Ma l’episodio cruento del 2006 è solo l’ultimo sussulto del vecchio feudo catanese trapiantato velenoso a Torino. Seguiranno arresti, gli ultimi, che misero la parola fine sui dossier della Criminalpol e delle squadre mobili sul famigerato clan dei catanesi che dagli anni settanta mise gli artigli sul Piemonte.

Arrivarono da Catania negli anni ’60.

Nella valigia, un ricco bagaglio culturale su estorsioni, sfruttamento, minacce, omicidi, furti, rapine. Inoltre, il confino, pratica che imponeva a mafiosi il soggiorno obbligato lontano dal loro habitat naturale, diede nuova linfa agli affari sporchi.

Il confino.

Con ingenuità e leggerezza, lo Stato obbligava i banditi a risiedere via dalle loro terre d’origine, via dal loro territorio di caccia tradizionale credendo così di risolvere il problema.

La tesi, vista in modo semplicistico, poteva essere la seguente: “Costui è un mafioso e delinque nel suo paese? Benissimo, gli facciamo terra bruciata intorno, lo prendiamo per la collottola e lo sbattiamo in qualche remoto paese di confine al freddo delle Alpi. Problema risolto.”

Problema risolto?

Assolutamente no. La criminalità organizzata è un cancro virulento, se si strappa un individuo malavitoso da una zona infetta di mafia e lo si insedia in un’ altra parte, quest’ultima parte poi si

infetterà a sua volta.

Un mafioso è un untore, un virus, dove va ammala il territorio, lo infiltra di intrallazzi, di paura, di racket.

Il Clan dei Catanesi, la Mafia in Piemonte

Così capitò da noi, in cui le famiglie confinate in Piemonte costituirono senza dubbio delle ambasciate di Cosa Nostra al Nord, delle enclave etniche ideali per esportare dal sud una nuova visione criminale.

Gli anni settanta a Torino costruiscono il periodo d’ascesa del clan dei catanesi. Prima le bische. Crebbero come funghi. Luoghi di carte, di rotoli di banconote, di strisce di cocaina.

I catanesi entrarono con prepotenza nel giro, come bisonti alla carica. Facevano irruzione nelle bische nel cuore della notte.

Rubavano tutto, soldi e gioielli dei giocatori. Il giorno dopo facevano ritrovare la refurtiva. Il messaggio era chiaro: loro potevano dare protezione in cambio di percentuale.

Poi l’eroina. Quello sì che era vero business, la gallina drogata dalle uova di polvere turca.

In città si stava creando un esercito di consumatori, un popolo maledetto di zombie dalle braccia affamate di punture e dal cervello bruciato. Il clan fece crescere la domanda, controllò l’offerta a suo beneficio, bucò la vita a migliaia di giovani.

I tentacoli s’ingrassavano e s’allargavano. Si delinearono due poteri criminali di primo piano, due “signorie” di spicco. I siciliani da una parte e dall’altra le cosche della ‘ndrangheta calabresi. Nemici – amici.

Facevano e rompevano alleanze tra loro. Vennero alle mani in più occasioni. Misterioso ed inquietante l’episodio capitato una mezzanotte sul finire degli anni settanta, in Piazza Carlina. Pare che quindici uomini si diedero appuntamento per fronteggiarsi.

Furono sparati oltre cinquanta colpi e addirittura l’esplosione di una granata fece tremare le finestre dei palazzi del centro.

Quando la “madama” arrivò in forze in tenuta da combattimento, tutto era finito, tutto era deserto, nessuna traccia di quei fantasmi da Far West: la mezzanotte di fuoco in Piazza Carlina.

Ma una guerra criminale e interregionale non giovava a nessuno…

( Leggi qui la seconda parte della storia)

Federico Mosso

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Alessandro Maldera

Giornalista, ha collaborato per molti anni con testate giornalistiche nazional e locali. Dal 2014 è il fondatore di mole24. Inoltre è docente di corsi di comunicazione web & marketing per enti e aziende